venerdì 29 ottobre 2010

Rassegna cinematografica alla biblioteca di Gatteo

Comune di Gatteo
Assessorato alla Cultura
Associazione Diffusione Musica
Biblioteca Comunale Ceccarelli
Centro Culturale “Gli Antonelli”
Via Roma, 13 - Gatteo
Ingresso gratuito
Info: 0541932377

Dal 5 Novembre al 3 Dicembre
Tutti i Venerdì
ore 20.45


Oltre lo schermo
Rassegna cinematografica per ragazzi



Per ragionare, condividere e approfondire divertendosi tematiche diverse legate al mondo giovanile


“Io la capisco, sai, questa vostra esigenza di autonomia. E’ una cosa sana, una cosa bella. Anche a me, alla vostra età…certe regole…bisogna stare a tavola con i genitori, mamma mia. Mi facevano impazzire!”

(Dal film: “Caterina va in città”)

L'avventura nella capitale della famiglia Iacovoni: Giancarlo è un insegnante di ragioneria animato da propositi di riscossa, che tra le pareti domestiche soffoca di complessi la moglie provinciale Agata e spinge la figlia Caterina a farsi avanti tra le amiche della classe che hanno alle spalle una famiglia rilevante. La ragazzina, col suo spaesamento ed il suo candore, diviene oggetto di contesa e di rivalità tra Margherita e Daniela, la prima figlia di una scrittrice e di un noto intellettuale, la seconda rampolla di un importante esponente dell'attuale governo...

Con "Caterina va in città" il regista di "Ovosodo" e "My name is Tanino", Paolo Virzì, ci porta con Caterina, la giovane protagonista della pellicola, che si trasferisce con la famiglia da Montaldo di Castro a Roma, nella caotica quotidianità della grande capitale, che sconvolgerà sia la sua esistenza che quella dei genitori.

Questa opera del regista toscano, più che un racconto di formazione, è una galleria di preoccupanti personaggi che costellano l'alta borghesia romana. Caterina è lo sguardo neutro e ancora incontaminato con cui osserviamo questa realtà deviata e confusa che sicuramente offre molti spunti comici, ma se si pensa che ciò che viene mostrato ha una certa dose di verosimiglianza ci si deprime velocemente. In una visione forse troppo manichea e forzatamente politicizzata assistiamo prima al rapporto di amicizia fra Caterina e una adolescente "comunista" e poi, da contraltare, alle frequentazioni tra la giovane protagonista ed un gruppo frutto delle viscere di fascisti in fase di rinnegamento. Ovunque si guardi c'è una serie di persone viziate, che hanno perso ogni punto di riferimento e cercano con il lanternino la vera felicità. Ma il trauma vive purtroppo anche all'interno della famiglia "normale" di Caterina, dove abbiamo un padre alla ricerca di un briciolo di celebrità ed una madre anestetizzata ed in balia degli eventi che la circondano.

Virzì esagera nelle caratterizzazioni dei personaggi, ma lo fa volutamente per colpire e per interrogarci con più forza su dove stiamo andando a finire. Il suo film è un'interessante riflessione sulle ultime due generazioni che sembrano aver perso il senso dei valori, abbagliate come sono dalla notorietà (soprattutto televisiva) e da un'esistenza fatta di eccessi. Ottime tutte le interpretazioni, che danno solidità alle contraddizioni che vivono nei vari protagonisti; su tutti brilla Sergio Castellitto, colui che più fa ridere e più dà da pensare.
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Due hippy spacciatori, Billy e Wyatt, viaggiano dalla West alla East Coast a bordo delle loro motociclette, vivendo alla giornata ed incappando in numerose disavventure. Sul loro percorso, i due amici incontreranno diversi personaggi singolari, tra cui un avvocato alcolista che li accompagnerà, per un breve tratto, nella loro avventura.

Quando si parla del road-movie per eccellenza, quando si immagina una colonna sonora in puro stile rock, quando oltre a tutto questo si aggiunge una realtà settantottina, droga e razzismo, ci si imbatte contro il muro di “Easy Rider”, diretto da Dennis Hopper. Una storia scarnificata all’osso viene condita con personaggi di straordinaria bellezza, unici nel loro genere, il tutto messo in viaggio attraverso le bellezze naturali che vanno dall’arida costa californiana sino alla verdeggiante Florida, dove si incontrano individui e realtà spaventosamente reali all’epoca.

Il lavoro di Dennis Hopper (regista e sceneggiatore) e di Peter Fonda (co-sceneggiatore), ai tempi, fu uno schiaffo alle menti del pubblico, un risveglio sotto l’acqua gelida: immagini bombardanti, una cromia in continua evoluzione dal caldo della terra del deserto al nero pece delle lingue di asfalto. L’accompagnamento musicale è fra i più celebri della storia del cinema ed, in certi momenti, allo spettatore, per completare l’opera di totale assuefazione agli straordinari quadri naturalistici, mancherebbe soltanto percepire il vento sul proprio volto, assieme alla terra sotto i propri piedi. L’audacia del giovane Dennis si percepisce sin da subito: forte è l’influenza del cinema underground e delle nouvelle vague, con inquadrature instabili, montaggio discontinuo e “saltellato”, passaggi fra una scena e l’altra con “flash” di fotogrammi che anticipano le immagini successive (sentita ispirazione ai film di Gregory Markopoulos). Hooper gioca con l’attenzione dell’ignaro spettatore, mostrandogli persino a mezzora dalla conclusione uno scorcio della scena finale. In questo inseguirsi nervoso d’immagini e suoni non manca una forte critica alla società americana, portata sul banco degli imputati dai dialoghi straordinari al lume del focolare fra Billy/Hooper e George/Nicholson e, soprattutto, dalle poche ma lapidarie battute dei personaggi di contorno.

I minuti finali sono sconcertanti, uno scioglimento inaspettato ma significativo che riprende la volontà sperimentatrice del cinema moderno di scioccare lo spettatore, con un passaggio da momenti pacati a risvolti drammatici, in un paio di fotogrammi, assolutamente imprevedibile. Una straordinaria escursione psichedelica e sociale lungo migliaia di chilometri d’asfalto e natura incontaminata, a bordo del sogno americano, alla ricerca della tanto agognata libertà made in USA. Un film, un viaggio che non deve assolutamente mancare nell’esperienza di ognuno di voi.
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Tracy è una ragazzina di tredici anni che vive con la madre Melanie, parrucchiera a domicilio. Trascorre il suo tempo perlopiù a studiare, finché non incontra Evie, una sua coetanea orfana di madre. Le due diventano amiche, ma Evie porterà progressivamente Tracy a compiere tutte quelle esperienze che un genitore vive come un incubo: sesso orale, droghe, alcol, piercing, lap dance e cattive compagnie...

I tredici anni sono nella vita di una donna un momento cruciale e lo sanno bene gli odierni genitori, spaventati dalle insidie a cui sono poste le teenagers: droga, alcool e sesso facile. Non stupisce quindi che il cinema abbia cercato di indagare più volte in questa fase critica dove la donna prende il posto della bambina. Uno dei lavori dedicato al tema più apprezzati dalla critica degli ultimi anni è certamente questo “Thirteen”, opera di esordio di Helen Catherine Hardwicke, ex scenografa e regista del recente fenomeno “Twilight”.

La storia è incentrata attorno alla tredicenne Tracy che, deviata dall’amica Evie, opera un brusco e pericoloso cambiamento di stile nella propria vita. La Hardwicke segue questo processo di trasformazione attraverso uno stile documentaristico, con la telecamera che non sta mai ferma e che si accorda così al tumultuoso stato d’animo della protagonista e di chi le sta attorno. Tale regia aiuta certamente il grado coinvolgimento, ma a tenere vivo l’interesse sono soprattutto le psicologie dei vari personaggi; la sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla Hardwicke e da Nikki Reed (che è poi l’attrice che interpretata Evie), offre difatti figure opportunamente sfumate ed anche leggermente indecifrabili, caratteristiche che sono proprie di una parte del mondo degli adolescenti. Ma curati sono anche i profili dei “grandi”, che naturalmente con le loro mancanze non possono non incidere sulla vita dei più giovani: emblematica la mamma di Tracy, incapace di affrontare sua figlia fino al momento in cui la realtà temuta le esplode sotto gli occhi nel toccante finale.

Lo script si fa inoltre apprezzare per la mancanza di eccessi morbosi (mancano di fatto scene atte solo a scioccare lo spettatore), scelta che tiene il narrato a distanza di sicurezza dagli stereotipi e sempre vicino al cuore dei personaggi. Ottime le prove attoriali, che non presentano dislivelli in funzione dell’età: testimonianza di questo sono le nomination ai Golden Globe sia di Holly Hunter che di Evan Rachel Wood, madre e figlia nel film.

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Nel 1952, due giovani argentini, Ernesto Guevara e Alberto Granado, si misero in viaggio per scoprire la vera America Latina. Ernesto, 23 anni, è uno studente in medicina specializzando in leprologia, e Alberto, 29 anni, è un biochimico. Il film segue i due giovani mentre scoprono la complessa e ricca topografia umana del continente latinoamericano.

Il film di Walter Salles (che molti ricorderanno come regista del fortunato Central do Brasil) è una sorta di atipico road-movie, dove il viaggio non simboleggia la fuga dalla realtà o dal quotidiano, ma funge da formazione di una coscienza politica e civile; un'esplorazione avventurosa alla scoperta dell'America latina che permette ai due giovani amici di riappropriarsi delle proprie origini, e di scoprire sé stessi toccando con mano una realtà fatta di povertà, arretratezza, ingiustizie e soprusi storici. Il ritratto dei due giovani amici è struggente anche se a volte ostentatamente "giovanilistico", e l'immagine di Guevara è quella di un giovane inquieto, con un profondo senso della giustizia e dell'onestà ma politicamente ancora privo di formazione, se non di una forma spontaneistica e terzomondista di approccio alla realtà. Questo elemento, che a molti farà storcere la bocca (erroneamente, visto che le riflessioni dei protagonisti, per quanto selezionate, sono tratte dai loro rispettivi libri sull'esperienza) è probabilmente la forza di un film che rifiuta fortunatamente di proporci un'immagine mitizzata ed eroica del rivoluzionario che sarà, illustrando le sue ansie, i suoi dubbi, la sua incompiutezza ed anche la sua malattia polmonare.

Un consiglio: non fuggite dalla sala appena vedete scorrere i titoli di coda, vi perdereste alcune affascinanti e vere foto del viaggio e il vecchio, vissuto viso di Alberto Granado.

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ohny Truelove, uno spacciatore di droga si scontra con Jake Muzursky, a causa di un debito di droga non pagato, i due personaggi dalla forte personalità entrano in collisione e la situazione precipita velocemente. Dopo una serie di vicende, mentre si dirigono ad una festa nel deserto, Johnny, insieme alla sua banda, rapisce il fratello più giovane di Jake, per ottenere in cambio il pagamento di tutti i debiti. Inizialmente, i ragazzi non hanno alcuna intenzione di far male al quindicenne Zack e lui non ha alcuna coscienza del grave pericolo che sta correndo.


Nick Cassavetes, regista dell'ottimo "John Q", film del 2002 con Denzel Washington, torna dietro la macchina da presa per raccontare un vero fatto di cronaca, l'omicidio di un minorenne, successo pochi anni fa, tanto che alcuni colpevoli del misfatto, tutti adolescenti, soggiornano tuttora nel braccio della morte. Un istant-movie dunque, che attraverso le vicende narrate tocca alcune tematiche piuttosto attuali, come il degrado di una certa fetta di adolescenti occidentali.


Il regista ricostruisce l'accaduto dettagliatamente, come se si stesse leggendo un articolo di cronaca nera. Alla ricostruzione infatti, a dare un taglio quasi documentaristico, vi sono inframezzate alcune interviste post-fattaccio ai testimoni, e alcuni sottotitoli che indicano nomi e cognomi di tutti i protagonisti. Una narrazione quasi didascalica, che è da una parte un limite del film ma dall'altra anche un pregio. Se difatti il racconto manca in alcuni punti di ritmo e di enfasi, con situazioni inutilmente dilungate, la meccanicità con la quale ci conduce all'assurdo e crudo epilogo, sottolinea e amplifica con efficacia la puerilità delle varie motivazioni e situazioni che portano all'efferato gesto. Ed è proprio tal puerilità l'elemento più interessante e sconcertante della pellicola: dietro ai comportamenti dei protagonisti non c'è difatti razionalità o emotività, semplicemente stupidità e incoscienza. D'altronde cosa ci si può aspettare dai rappresentanti di una generazione senza punti di riferimento, che beve e fuma in continuazione, ed è perennemente inconsapevole delle proprie azioni?

Un'opera dunque che sa far pensare e che lascia un forte amaro in bocca, con un'accusa chiara del regista alla leggerezza con cui la società odierna permette alle future generazioni di "vivere" nei più svariati modi, condivisibile ed apprezzabile, e non bacchettona. Buoni i vari interpreti, fra cui un Justin Timberlack che non inficia lo spettacolo, e Sharon Stone e Bruce Willis nei panni di due "tipi" di genitore agli antipodi, parti piccole ma significative.

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