I bambini i cimiteri e il boscosanto
Le civiltà e il culto dei morti. Una riflessione sui cimiteri… di Gianfranco Zavalloni
Cimitero vicino al lago Balaton
Uno dei temi più difficili che un insegnante prima o poi si trova ad affrontare con i propri allievi è quello della morte. Personalmente nella mia esperienza con i bimbi e le bimbe della scuola materna, l’ho affrontato in maniera molto semplice. Andavo spesso con loro al cimitero. Nel prato del piccolo cimitero di campagna, punteggiato dalle lapidi e dai residui di corone di fiori di recenti sepolture, si passeggiava, si correva (a volte qualcuno giocava) nel pieno rispetto di quel luogo e di quello che esso rappresenta per la comunità locale.
Nel passare in mezzo alle tombe, i bambini spesso riconoscevano anziani deceduti da poco o foto del nonno o del parente di famiglia. Il cimitero non è vissuto, in questo modo, come un luogo estraneo, un luogo tetro, un ambiente da temere o da rifuggire.
Questo approccio mi offre l’occasione per riflettere sull’idea che noi tutti abbiamo dei luoghi preposti ad accogliere “coloro che furono” e dell’idea che di questo luogo spesso noi adulti veicoliamo ai bambini.
Vorrei premettere che quando vado in un paese straniero mi attirano in particolare tre luoghi: le stazioni, le ferramenta e i cimiteri.
Condivido per questo il senso della scritta che ho recentemente letto e che è posta all’entrata dell’elegante cimitero dell’isola di Ustica, dove si afferma in maniera lapidare: “La civiltà dei popoli si riconosce dal culto dei morti”. Apprezzo così moltissimo i cimiteri-collina anglosassoni, i cimiteri di guerra dolomitici o dei piccoli paesi delle valli alpine, i cimiteri davanti al mare di molte località nordafricane. Uno dei più bei cimiteri l’ho trovato in Ungheria, esposto verso il Lago Balaton. Non dispone né di recinto né di cancello. Una semplice collinetta su cui sono posizionate in ordine sparso lapidi di pietra locale di varia forma. Le più sono fatte a forma di cuore. Sembra una distesa di cuori adolescenziali. Ecco: è qui che viene fuori l’idea del “camposanto”, di un luogo speciale e per questo “santo”, in cui i vivi pensano ai loro antenati, consapevoli di ciò i visitatori trovano scritto su un’altra lapide posta nel più grande fra i cimiteri romani: “quello che siete fummo, quello che siamo sarete”.
A proposito della cremazione
Pur rispettando la tradizione induista di bruciare i morti, la ritengo una operazione antiecologica. Tanto più nella versione moderna della cremazione. Chi ha assistito a tale rito sa che per circa due ore, dalla ciminiera del forno crematorio, escono fumi non certo naturali. Insieme al carburante usato in gran quantità, vengono bruciati, oltre al cadavere, plastiche, tessuti, metalli e legname. Nulla da invidiare alla follia dei campi di concentramento nazisti che, paradossalmente, nell’atto di far spogliare le vittime, sono risultati storicamente meno inquinanti dei moderni crematori. Per questo ho scritto all’amico capo-gruppo consigliare dei Verdi al Comune di Cesena, esprimendo il mio totale disappunto verso la sua proposta di favorire, come Amministrazione Comunale, la pratica della cremazione. Come è possibile essere contro gli inceneritori dei rifiuti e poi essere a favore della pratica di incenerimento dei cadaveri.
La proposta ecologica di riciclare i morti: il boscosanto
Mi servo delle parole di Friedrich Stowasser, in arte Hundertwasser (1928-2000), pittore, architetto, ed ecologisa austriaco, che ben esprime in sintesi il mio pensiero. Con l’avvento di un’epoca ecologica, apparirà evidente che il rifiuto, gli scarti non esistono, nulla muore, tutto continua a vivere, assumendo però altre forme e questa non è una filosofia religiosa, è un dato di fatto. Forte di una concezione errata, quella del giudizio universale e della resurrezione, la gente crede ancora, come gli antichi egizi, che conservando una persona nel suo aspetto fisico, essa risorgerà il giorno dei giudizio universale giovane com’era in vita. Ma è una vera assurdità. Oggi i morti vengono seppelliti in modo particolarmente antiecologico. La salma imputridisce in una cassa ermeticamente chiusa sotto quattro metri di terra. In questo modo le radici degli alberi non possono operare il processo di rigenerazione. Inoltre una lastra di cemento e fiori artificiali separano il morto dal cielo e alla terra. Un essere umano dovrebbe essere sepolto soltanto a mezzo metro dalla superficie. Poi sulla tomba si dovrebbe piantare un albero. La cassa dovrebbe potersi decomporre in modo che la sostanza organica dei defunto possa essere utile all’albero che vi cresce sopra. Esso accoglierà in sé qualcosa del morto, lo trasformerà in sostanza vegetale. Quando ci si recherà alla tomba, non si farà visita ad un morto, bensì ad un essere vivente che si è trasformato in albero, che continua a vivere nell’albero. Si potrà dire: «Questo è mio nonno, l’albero cresce bene, stupendamente». Si può piantare un bosco magnifico, più bello del solito bosco perché gli alberi avranno radici nei sepolcri. Il bosco potrà estendersi nel circondario e, poiché sicuramente non abbiamo abbastanza boschi, permetterà allo stesso tempo di mantenere, anzi di accrescere il patrimonio forestale. Sorgerà un parco, un luogo di cui ci si potrà rallegrare, in cui si potrà vivere e persino andare a caccia. Un luogo fantastico in cui si potrà restare in contatto ininterrotto con la vita e con la morte. Non credo che una qualsiasi autorità possa avere qualcosa in contrario. I morti dovrebbero essere sepolti dappertutto, anche nel proprio giardino. I luoghi dei morti saranno contemporaneamente anche le foreste della vita. Gli alberi segneranno le tombe. Le persone sceglieranno alberi diversi, per cui non ne risulterà una monocultura, ma un bosco incredibilmente variegato. Questo luogo si trasformerà in un paradiso, nel giardino dell’Eden.
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